Avrai sentito che la prima donna a correre la Boston Marathon fu Kathrine Switzer. In verità non fu così. Questa è la vera storia.
Sempre più donne corrono, ma non è sempre stato così. Non 100 anni fa, ma più semplicemente nel non lontanissimo 1966, non era loro permesso correre alla mitica Boston Marathon.
Ciò non impedì a Roberta Gibb di iscriversi. Quando ricevette posta dall’organizzazione era sicura che si trattasse del pettorale ma il suo stupore superò la delusione nel leggere la motivazione. Fino a diventare quasi rabbia: il comitato organizzatore la escludeva perché “La corsa è aperta ai soli concorrenti maschi e inoltre le donne non sono fisicamente in grado di correre una maratona”.
Non l’avessero mai detto.
Avere la corsa nel sangue
Roberta correva da una vita nei boschi attorno a Boston. Ci era nata e ne conosceva benissimo i sentieri e le strade. Amava il cross country e si allenava con il fidanzato quasi ogni giorno. Correre la faceva star bene, la divertiva. Chi erano quelli per impedirle di farlo alla maratona della sua stessa città?
Leggendo la lettera di rifiuto capì che avrebbe potuto reagire in due modi: accettarla oppure rifiutarla e presentarsi alla partenza, dimostrando così che le donne erano perfettamente in grado di fare quello che faceva un uomo.
Roberta non ci pensò due volte.
700 giorni si allenamento
Cinque giorni prima della maratona prese un bus da San Diego dove nel frattempo si era trasferita per lavoro. La dividevano da Boston più di 4800 km. Ci arrivò dopo quattro giorni di viaggio. Il tempo di riposarsi e di presentarsi alla partenza, con i bermuda di suo fratello e delle scarpe sportive da ragazzo ai piedi, perché al tempo non esistevano scarpe da running da donna.
Per timore di essere riconosciuta e cacciata prima ancora dell’inizio dai giudici di gara si nascose fra i cespugli e si confuse poi fra i 540 iscritti (uomini) senza dare nell’occhio. E qui accadde una cosa bellissima: i concorrenti se ne accorsero nonostante indossasse una maglia che copriva le sue forme e capirono subito da che parte dovevano stare “Non permetteremo a nessuno di cacciarti. La strada è di tutti”.
“Furono molto protettivi con me – ricorda Roberta – Gli faceva piacere che una donna corresse. Mi incoraggiarono molto”.
In corsa non solo per se stessa
La gara iniziò. Roberta era consapevole di non essere solo una donna che correva quel giorno. Non era solo quella Roberta che si era allenata due anni interi per 700 giorni in totale per essere lì, quel giorno del 1966. Roberta era un simbolo per tutte le donne del mondo: doveva dimostrare cosa erano capaci di fare, doveva dimostrare che non erano da meno di un uomo. E Roberta corse, determinata e forte, fino alla mitica Heartbreak Hill, la collina che ti ammazza perché sega le gambe a tutti quelli che corrono Boston. E la salita non perdonò: Roberta pensava di non farcela. Eppure proprio nel momento peggiore si disse che un ritiro non era ammissibile, che sarebbe stato come dare ragione ai giudici di gara, che le donne avrebbero fatto un passo indietro di decenni se avesse gettato la spugna. Con i piedi sanguinanti per le scarpe troppo piccole, con i crampi per la disidratazione (perché al tempo si pensava che idratarsi facesse venire i crampi) strinse i denti e andò avanti. E tagliò il traguardo.
Un passo indietro
Hai sempre sentito dire che la prima donna a correre Boston fu Kathrine Switzer, una 20enne che si iscrisse indicando solo le sue iniziali per non destare sospetto e che il direttore di gara Jock Semple cercò di strattonare e trascinare fuori dal gruppo di partenza prima dell’inizio, convincendo finalmente l’opinione pubblica che era ormai ridicolo escludere le donne dalle maratone. Ma questo accadde nel 1967, l’anno dopo. Eppure per anni la Switzer è stata considerata la prima donna a correre Boston. Roberta nel frattempo era impegnata a lavorare a San Diego, a divorziare, a risposarsi e ad avere un figlio nel 1975. Finché un giorno, guardando la televisione, vide un servizio sulla prima donna a correre Boston: 1967, Kathrine Switzer.
Un lieto fine
Decise che era ora di correggere qualche imprecisione: scrisse a giornali e televisioni ma non ottenne subito una risposta e nemmeno la doverosa correzione che chiedeva.
Finché fu la stessa BAA, che organizza la maratona, a riconoscerle retrospettivamente la medaglia come prima vincitrice donna (nonché unica, al tempo) e a invitarla a correre nel 1986, nel ’96 e nel 2001 in corrispondenza del 20°, 30° e 35° anniversario della sua storica impresa. E quest’anno, per la 50ª Boston Marathon, Roberta Gibb sarà Grand Marshal della gara.
Lei lavora ancora come ricercatrice alla University of California San Diego, ha 74 anni e corre ancora.
Della sua esperienza dice semplicemente che era stata educata a pensare che le donne fossero passive. Voleva però dimostrare che erano capaci di ben altro: di bellezza, forza e determinazione.
HO FATTO IL POSSIBILE PERCHÉ LE COSE ANDASSERO IN QUESTA DIREZIONE.
E ci sei riuscita, Roberta “Bobbi” Gibb, la prima delle donne che fino ad oggi costituiscono il 45% dei 26598 finisher della Boston Marathon. La prima donna senza la quale non ci sarebbero state migliaia di donne a correre una maratona, dimostrando che fisicamente niente le può fermare.
Fonte: www.runlovers.it